Questo articolo avrebbe dovuto avere, inizialmente, una diversa collocazione. Non avendo però più notizie, da parecchio tempo, dello spazio che avrebbe dovuto ospitarlo, lo pubblico qui sul blog, perché possa essere utile a chiunque sia interessato all’argomento. Buona lettura!
[Segnalo che sul tema dei corpi ibridi e mutanti è uscita anche l’antologia Human / Corpi ibridi e mutanti nell’universo del possibile, edito da Moscabianca Edizioni. In questo caso si tratta di racconti italiani, ce n’è anche uno mio]
In Giappone, la nascita della fantascienza scritta dalle donne sembra aver coinciso con il movimento di liberazione femminile mondiale e con l’ascesa della SF delle donne occidentali, tra i tardi anni Sessanta e gli anni Settanta, come osserva la critica Kotani Mari in Space, Body, and Aliens in Japanese Women’s Science Fiction.
È quindi solo a partire dal Dopoguerra che la SF delle donne inizia a ritagliarsi uno spazio all’interno del genere, estendendone i confini e creando nuove forme e visioni sfaccettate. In questo processo, la figura del cyborg risulta cruciale: è proprio nell’ambito del postumano che Ohara Mariko si fa strada nel genere fantascientifico, sperimentando, nelle sue storie, le possibilità offerte da cyborg, corpi postumani e altre figure liminali per “reinterpretare” l’umano, creare nuovi paradigmi del genere/sesso, rappresentare sessualità fluide e delineare rapporti amorosi alternativi.
Il protagonista di Hybrid Child (Haiburiddo Chairudo,1990), ad esempio, è un cyborg che si evolve assumendo l’aspetto di tutto ciò che ingerisce, caratteristica che lo porta a cambiare sesso molteplici volte nel corso della storia; oppure, in Ragazza (Shojo, 1984) il personaggio principale è un ermafrodito con una caratterizzazione fisica che ha sia elementi maschili che femminili; o ancora in Mental Female (Mentaru fimeru, 1985), dove la protagonista, un’Intelligenza Artificiale dalle identità multiple, ridisegna nuovi parametri di femminilità.
La rappresentazione di sessualità fluide e intercambiabili, nelle opere di Ohara, diviene un modo per contestare i concetti legati al binarismo di genere, alle sessualità/relazioni eteronormative, alle convenzioni sociali che ammettono solo poche e limitate forme di femminilità.
Sebbene Ohara, come fa notare Kazue Harada nel suo Japanese Women’s Science Fiction: Posthuman Bodies and the Representation of Gender, non si sia mai dichiarata un’autrice femminista, alla base delle sue opere c’è la volontà di liberarsi dei vincoli imposti utilizzando la figura del cyborg per mettere l’accento, e al tempo stesso rifiutare, i dualismi fondati sulla società maschilista, a partire dai confini che separano umano e animale e umano e macchina, in modi che richiamano il Manifesto cyborg di Donna Haraway.
Con le sue figure e le sue potenzialità, ed essendo essa stessa un genere fluido, la fantascienza ha offerto la possibilità di ritagliarsi uno spazio creativo in cui riconfigurare i corpi umani e ricostruire il mondo in futuri immaginari (o passati alternativi).
Cyborg in Giappone
In Giappone i cyborg sono noti soprattutto in ambito cinematografico e manga. Elementi ricorrenti, in questo senso, sono i robot giganti con pilota umano, o, più precisamente, le “mecha-suit” usate per il combattimento; il culmine di questo sottogenere della SF è rappresentato dall’anime Neon Genesis Evangelion, 1995-1996. In questi casi, così come nella gran parte dei prodotti culturali di questo tipo (da Astro Boy, 1952-1968, a Tetsuo, 1989), la caratterizzazione è maschile, per quanto non siano del tutto assenti figure di cyborg femminili forti come nel caso del manga di Masamune Shirow Kokaku Kidotai, meglio noto come Ghost in the Shell, uscito per la prima volta nel 1989.
La produzione fantascientifica giapponese del Dopoguerra, periodo nel quale iniziano a comparire i primi cyborg e postumani nelle opere di narrativa, è inizialmente influenzata dalla SF americana. In Generations and Controversies: an Overview of Japanese Science Fiction, 1957-1997, Takayuki Tatsumi, autore di alcuni dei più importanti studi sulla SF giapponese, classifica quattro gruppi generazionali. La prima generazione è collocata negli anni ‘60 (che comprende Kobo Abe, Tetsu Yano, Sakyo Komatsu, Yasutaka Tsutsui e Taku Mayumura, di cui alcuni racconti sono stati tradotti in italiano nell’antologia La leggenda della nave di carta), è caratterizzata dall’influenza della SF americana degli anni ’50. Sono significative le parole di Koichi Yamano che nel 1969 paragona la SF giapponese a una “casa prefabbricata” fornita dagli scrittori americani:
For example, Kôbô Abe’s novels are definitely SF-oriented, despite his prestige in mainstream literature. Nonetheless, Japanese writers made their debuts deeply influenced by traditional Western criteria of SF. Instead of creating their own worlds, they immersed themselves totally into the translated major works of Anglo-American SF. This is like moving into a prefabricated house; the SF genre has grown into our culture regardless of whether there was a place for it. [1]
È a partire dalla seconda generazione, negli anni ’70, che gli autori SF assorbono l’approccio della New Wave e iniziano a manifestare uno stile maggiormente definito, grazie soprattutto alle opere di Koji Tanaka, Masaki Yamada e Chiaki Kawamata, in cui compaiono postumani e cyborg.
Anche la figura del cyborg acquisisce nuove caratteristiche a partire dagli anni ’80 (a cavallo tra la terza generazione di autori, in cui emerge anche Ohara Mariko, e la quarta), periodo in cui, secondo la postulazione di Tatsumi in Full Metal Apache: Transactions Between Cyberpunk Japan and Avant-Pop America (2006), si passa dalla logica dell’imitazione del modello americano alla logica della sincronia tra i due sistemi culturali (secondo la quale in questi anni, già da prima della traduzione di Neuromancer, in Giappone si producevano opere dalla sensibilità cyberpunk).
Le peculiarità dei cyborg giapponesi rivelano, sempre secondo Tatsumi, la tendenza degli artisti/autori giapponesi a “auto-orientalizzarsi”, ovvero a riappropriarsi di una visione occidentale del Giappone in quella che Sharalyn Orbaugh definisce la “sindrome di Frankenstein”, in cui “the developing non-West nations [in this case Japan] come to recognize their own ‘monstrosity’ vis-à-vis/within the discursive hegemony of the already developed nations of the West” (Orbaugh 62).
Come il mostro di Frankenstein, rigettato prima dal proprio creatore e poi da tutte le altre persone, il popolo giapponese del Dopoguerra
was forced time and again to recognize that even their complete acquisition of the “godlike science” of language – in the form of the discourses of industrial, post-enlightment modernism – was not enough to save them from the curse of monsterism in the eyes of the West. All modern Japanese literature and art have been, and continue to be, produced under the shadow of this recognition, leading to a marked concern with monstrous or anomalous bodies/subjectivities and a range of attendant issue. In striking similarity to key themes in Shelley’s Frankenstein, some of the most pressing issues for modern Japanese narrative include questions of legitimacy/illegitimacy, non-normative forms of reproduction, radically hybrid bodies or subjectivities, and ambiguous or anomalous incarnations of sex/gender/sexuality. (ibid.)
Nei loro testi, quindi, gli autori giapponesi hanno la tendenza a diventare essi stessi i “mostri”, a incarnarsi in ciò che l’Occidente percepisce come strano e anomalo, cosa che, sempre secondo Orbaugh, nella narrativa di fantascienza giapponese sposta il focus dal cyborg come minaccia per l’umanità alla soggettività e alla natura stessa del cyborg, adottando un punto di vista più “simpatetico e interiore”.
Un esempio è la trasformazione delle persone, operata dagli scrittori giapponesi del Dopoguerra nelle loro opere, in specie post-umane per permetterne la sopravvivenza. Sono significative, da questo punto di vista, le opere citate da Tatsumi in Full Metal Apache: il romanzo Nihon apatchi-zoku (The Japanese Apache, 1964) di Komatsu Sakyo, in cui una tribù (gli “apache giapponesi”) vive confinata in una zona di guerra, dove sopravvive cibandosi di rottami di metallo; oppure Kachikujin Yapoo (Yapoo the Human Cattle, 1970) di Numa Shozo, che racconta un mondo in cui i bianchi anglosassoni hanno ottenuto la supremazia assoluta, riducendo i neri in schiavitù mentre gli asiatici (più precisamente i giapponesi) sono utilizzati come bestiame, o, con i dovuti trattamenti chirurgici e genetici, addirittura come mobilio umano e suppellettili viventi.
Takayuki Tatsumi affronta la questione in Full Metal Apache collegandola ai concetti di “creative masochism” e “metallocentric imagination”, legati alla trasformazione in cyborg e all’ibridazione dei corpi. Il cyborg, in Giappone, viene immaginato come una sintesi tra elementi eterogenei e contrastanti, in cui si fondono fattori diversi e opposti, positivi e negativi. Tra i primi esempi troviamo personaggi a cui l’ibridazione con la tecnologia fa acquisire nuove capacità, provocando però anche grandi sofferenze, come nel film Tetsuo – in continuità con il concetto di “masochismo creativo”:
In short, Japanese intellectual history has gradually systematized the metallocentric philosophy of creative masochism by radically transforming the humiliating experience of diaspora into the techno-utopian principle of construction. This enables us to explain the reason why we Japanese are more tempted to naturalize and “digest” the digital electronic information network of virtual reality, feeling as we do that we are essentially metallivorous. Accordingly, for the time being, we can safely characterize Shinya Tsukamoto’s Tetsuo diptych as the most experimental junction ofthe postwar literary history of the Japanese Apache and the postwar intellectual history of creative masochism. (168)
Il masochismo creativo, per dirla con le parole di Natsuki Fukunaga nella sua recensione di Full Metal Apache, include anche la “self-reflexive identity” che il Giappone ha creato di sé dopo aver vissuto una condizione di passività e dipendenza in seguito alla vittoria degli Stati Uniti della Seconda Guerra Mondiale e all’occupazione americana.
Ripartendo dal concetto di cyborg come sintesi tra elementi eterogenei, le opere di Ohara Mariko (collocata, secondo la classificazione di Tatsumi, nella terza generazione di autori di fantascienza) creano figure nuove, esplorando i temi del corpo, dell’intimità, della riproduzione e della percezione del genere.
Sessualità, genere e postumanità in Ohara Mariko
In Full Metal Apache Takayuki Tatsumi parla di Ohara non solo come di una delle esponenti del cyberpunk più importanti in Giappone, ma anche come una vera e propria pioniera:
In this generation that produced certain talent analogous in cyberpunk, best represented by Ohara Mariko, who developed her own style, modeled chiefly on one of cyberpunk’s precursors, Cordwainer Smith. I remembered talking to Bruce Sterling in 1986 about Ohara’s unwittingly cyberpunklike short story “Mental Female”, in which a Tokyo mother computer and north Siberian father computer appear on TV as a girl and a boy, Ms. Kipple and Mr. Techie, who fall in love with each other and, as foreplay, begin playing catch – a foreplay that launches missiles from both sides. The important thing to note is that the author had written this before [Hisashi] Kuroma’s translation of Neuromancer was published. (109)
Drammaticamente consapevole della cultura ipertecnologizzata e consumistica diffusasi in Giappone negli anni ’80, Ohara infonde nelle sue opere riflessioni sulla società giapponese postmoderna, tra cui la sua organizzazione patriarcale e la realtà del genere/sesso.
Secondo Judith Butler, è la performance di genere a creare il genere stesso: la coerenza delle categorie sessuali è il costrutto culturale della ripetizione di atti corporei stilizzati, in un meccanismo che rafforza la visione binaria e la dualità sessuale. Il corpo come parte integrante del processo di costruzione sociale è centrale anche nella visione di Donna Haraway, che afferma che la corporalità umana è il frutto di un complesso di fattori storici e culturali che puntano al dualismo e alla semplificazione per fini politici, scenario nel quale la metafora del cyborg si configura come una sfida radicale al binarismo e alle gerarchie sociali.
Il cyborg diviene anche una figura che può rimuovere i limiti del corpo femminile, mettendo in crisi le categorie sessuali basate sulla natura per postulare la possibilità utopica di un mondo in cui, per dirla con Veronica Hollinger, “bodies, desires, and sex/gender behaviors are free-floating and in constant play”. Le opere di Ohara, nel loro rappresentare corpi mutevoli, ibridi, simulati e dalla sessualità fluida, concretizzano, anche se solo nella finzione, un mondo “post-gender”.
Il protagonista di Hybrid Child, Sample B III, è un/a cyborg che ha la capacità di trasformarsi in tutto ciò che mangia (durante la vicenda che lo/a riguarda assume la forma di animali, persone, bambini, cloni…), e incarna la nozione di Haraway del cyborg come essere capace di trascendere i confini tra umani, macchine e animali. Mutare forma tramite l’ingestione è il modo tramite il quale si evolve, acquisendo caratteristiche che ritiene utili per la propria sopravvivenza, a suggerire che l’evoluzione (e quindi, in ultima analisi, la sopravvivenza) si ottiene non restando “puri”, bensì tramite l’ibridazione, l’esperienza, la compromissione con altri esseri e altre realtà.
La trama di Hybrid Child è complessa, soprattutto a causa delle numerose identità che Sample B #3 si trova ad assumere. A complicare ulteriormente le cose c’è il fatto che alcune di queste identità sono, già in partenza, multiformi: Sample B #3 si trova ad avere a che fare, e ad assumere le sembianze, di una madre, della clone di sua figlia morta (a sua volta clone della madre) e della coscienza della stessa figlia. Questo brano, scritto dal punto di vista della madre, fornisce un’idea della fluidità delle identità presenti in Hybrid Child:
My daughter name’s is Jonah. She is both the daughter that I gave birth to and myself as a little girl. Jonah takes care of the house. She is the latest type of general-purpose “housekeeper computer”, top-of-the-line. Jonah’s actual body is buried under the house. (pos. 84)[1]
Le sue molteplici e variegate trasformazioni di Sample B #3, che inizialmente ha una connotazione maschile ma si trova spesso ad avere un corpo femminile, lo/a portano a ricostruire continuamente la propria identità di genere. Anche la sua sessualità ne è, naturalmente, influenzata: nella forma della ragazzina Jonah (in cui il protagonista si trova dopo aver ingerito sia il clone della vera Jonah che la sua coscienza), Sample B #3 scopre di provare dei sentimenti verso un giovane uomo, Shiva.
La complessità della storia di Hybrid Child rappresenta un invito a riflettere sul tema dell’identità, a cominciare dalla struttura del romanzo stesso, che spesso disorienta il lettore, essendo un ibrido tra diversi plot e generi (in particolare horror e fantascienza), anche a causa del fatto che inizialmente uscì in tre episodi distinti, pubblicati tra il 1985 e il 1990.
La contestazione del binarismo di genere tramite la riconfigurazione del corpo umano è presente anche nel racconto Ragazza (1984), presente nell’antologia di racconti giapponesi La leggenda della nave di carta, in cui protagonista è un ermafrodito dotato di un corpo che ha, allo stesso tempo, caratteristiche fisiche maschili e femminili.
Gil è coniugato al maschile, ma la connotazione che l’autrice ne fa è spesso femminile: viene detto che ha “i fianchi da ape regina” e dei seni artificiali che gli sono stati impiantati. Anche la sessualità di Gil è fluida: ha numerose relazioni omosessuali, ma s’innamora di Kisa, una ragazzina dall’aria innocente (a sua volta dotata di una sessualità ambigua; è attratta da Gil ma ha una relazione con la sua compagna di stanza), il cui corpo viene descritto come “soffice e bianco come panna” (235-36) ma dotato, al contempo, di parti meccaniche.
Anche Ragazza richiama il Manifesto cyborg di Donna Haraway con l’ibridazione tra i generi sessuali, tra umano e macchina e perfino tra umano a animale. Allo stesso modo, nel suo essere sia uomo che donna, Gil richiama la nozione di “drag” di Judith Butler come fenomeno che rivela la natura performativa del genere, capace di mettere l’accento, con la dissonanza tra l’anatomia di chi compie la performance e il genere oggetto della performance, sulla struttura imitativa del genere stesso:
The moment in which one’s staid and usual cultural perceptions fail, when one cannot with surety read the body that one sees, is precisely the moment when one is no longer sure whether the body encountered is that of a man or a woman. […] When such categories come into question, the reality of gender is also put into crisis: […] And this is the occasion in which we come to understand that what we take to be “real,” what we invoke as the naturalized knowledge of gender is, in fact, a changeable and revisable reality. (Gender Trouble, xxii)
La performatività del genere è dunque un aspetto fondamentale delle opere di Ohara, espressa attraverso l’ambiguità dei corpi, l’ibridazione, le relazioni bisessuali, nuove forme e possibilità.
L’ibridazione è anche al centro di The Mental Female (1984), racconto in cui due AI, Kipple e Techie, si innamorano, hanno una lunga storia in un reality show trasmesso su tutti gli schermi TV di Tokyo e generano un figlio insieme, Wolf Boy (qui il racconto integrale in inglese). In questo caso, la contestazione dei ruoli di genere, oltre all’espressione dell’esistenza di identità molteplici (sempre in opposizione all’assunto che esista una “normalità” rispondente a determinati parametri sociali), è espressa attraverso Kipple, la “madre”, che è, allo stesso tempo, tre entità differenti: “Her” (l’immagine virtuale visibile in TV, descritta come una “bellezza di 7 pollici e mezzo con la pelle di ceramica), “The Bird Mother” (il “corpo fisico” di Her, somigliante a un pollo gigante) e “The Story Maker” (la creatrice del reality). Tutte e tre queste entità hanno caratterizzazioni e comportamenti molto diversi: Her è un’entità sensuale, dedita ad attività erotiche e capace di eccitare gli abitanti di Tokyo:
She loosened her sash. Her kimono was transparent – her body had been visible throughout – but fully naked she was even sexier than imagined. For two weeks they sexed each other, their tumbling, endless intercourse exciting every citizen of the city–human, android, cat, dog, bird, reptile, mole, whale, friend and foe, self-styled gods and prophets of gods–anyone with eyes had them riveted to the screens. (The Mental Female)
The Bird Mother appare come un’entità grottesca, caratterizzata con l’aspetto di un pollo, del tutto folle ed affetta da un amore morboso verso il figlio, che insegue per tutta Tokyo quando lui tenta di sfuggire al suo controllo. Significativo questo brano, dove Bird parla di Her (cioè di sé stessa) in terza persona:
Bird was firing laser blasts at him, which Wolf Boy zigzagged around as he ran.
“Why don’t you just let Her love you?”
“How can I? She’ll kill me with Her love!” (The Mental Female)
The Story Maker è una figura ambigua: è sia la creatrice di Her, sia Her stessa (la fidanzata di Wolf Boy, Sheila, la descrive così: “a different world radiated from Her, the world which She created, the story She told Herself that She could shape reality”), e al tempo stesso sembra essere l’immagine virtuale stessa di Tokyo, dove Her, Techie, Wolf Boy e gli altri personaggi del reality vivono e interagiscono.
Attraverso la figura di Kipple, Ohara rappresenta una molteplicità di identità femminili coesistenti nella stessa entità virtuale, in un’operazione narrativa che richiama, anche in questo caso, la performatività del genere. Questa triplice frammentazione sembra sfidare, nota Harada, la logica uomo/mente e donna/corpo di cui parla Butler, riprendendo quanto espresso in Il secondo sesso di Simone de Beauvoir:
For Beauvoir, the “subject” within the existential analytic of misogyny is always already masculine, conflated with the universal, differentiating itself from a feminine “Other” outside the universalizing norms of personhood, hopelessly “particular,” embodied, condemned to immanence.[…] That subject [the masculine epistemological subject] is abstract to the extent that it disavows its socially marked embodiment and, further, projects that disavowed and disparaged embodiment on to the feminine sphere, effectively renaming the body as female. This association of the body with the female works along magical relations of reciprocity whereby the female sex becomes restricted to its body, and the male body, fully disavowed, becomes, paradoxically, the incorporeal instrument of an ostensibly radical freedom. (Butler 16)
I significati culturali di genere vengono prodotti a partire dalla rappresentazione sociale della corporeità femminile, in un nucleo in cui si sono stratificate convinzioni e tradizioni che imprigionano la femminilità. Quest’ultima, in The Mental Female, va incontro a una liberazione attraverso quel rigetto dell’“embodiment” di cui parla Judith Butler, svincolandola così dai limiti del corpo e minando, in questo modo, l’asimmetria tra uomo e donna basata sulla determinazione corporea.
Le forme complesse assunte dalla protagonista all’interno della simulazione di The Mental Female oscillano tra mente e corpo, umano e macchina, animale e macchina, corporeità e incorporeità, creando nuovi paradigmi di femminilità. Allo stesso modo, Ohara evidenzia un nuovo paradigma di maternità (per quanto non proprio positivo), in contrasto con le caratteristiche di dolcezza, amore e remissività convenzionalmente attribuiti alle donne e dalle madri, soprattutto nell’epoca in cui il racconto è stato scritto.
Altre autrici giapponesi
Tra le autrici giapponesi che si sono occupate di questioni legate al genere, è sicuramente da citare Ueda Sayuri, vincitrice del Sense of Gender Awards del 2011.
Ueda pone al centro delle proprie opere nuove forme di sessualità e di genere, introducendo ed esplorando nuove possibilità all’interno del sistema sessuale basato sul dualismo e sulle coppie di opposti (uomo/donna, eterosessuale/omosessuale). Sono significative le figure dei “Rounds” nel suo romanzo The Cage of Zeus (2004), una nuova razza di postumani dotati di entrambi i sessi, perfettamente ermafroditi, creati dagli scienziati nel tentativo di eliminare il problema delle differenze sessuali e realizzare una società basata sull’uguaglianza e sulla parità. I Rounds sono tenuti in isolamento su un pianeta chiamato Jupiter-1, poiché le sperimentazioni di questo tipo sono proibite sulla Terra e su Marte, dove invece abitano le persone con un solo sesso (i “Monaurals”). Costantemente controllati da team di scienziati, i Rounds hanno costruito una società con una concezione radicalmente diversa della sessualità e del genere.
In Questioni di genere Judith Butler teorizza come l’apparente ovvietà del sesso come fatto biologico naturale venga utilizzato per rafforzare le costruzioni culturali volte a rafforzare le forme dell’eteronormatività e della dualità sessuale.
Nella società dei Rounds, dove i corpi hanno entrambi i sessi, sono invece perfettamente normali la massima fluidità sessuale e di genere. È interessante l’utilizzo, nella traduzione inglese del romanzo, dei pronomi del sistema Spivak, un insieme di pronomi gender-neutral, ideati dal matematico Michael Spivak, formati eliminando il “th” nei pronomi plurali they, them, their, ecc. Ad esempio vengono utilizzati, in riferimento ai singoli individui, il pronome ey, il complemento oggetto em e il possessivo eir (“Having lost the tendency to dwell on eir differences as ey did when ey was younger, Tei became a doctor and also a counselor to the younger generation”; Ueda 67).
È importante notare come le definizioni di rapporti eterosessuali, omosessuali, bisessuali ecc. in The Cage of Zeus abbiano senso solo per le persone “monosessuali”, e quindi non sono utilizzate in una società come quella dei Rounds basata sull’assoluta fluidità del genere e della sessualità. In questo modo, il romanzo di Ueda, nel suo rappresentare il confronto con una naturalità e una normalità differenti, pone l’accento sulla fluidità delle identità sessuali, contestando e al tempo stesso rifiutando il dualismo di genere come norma.
The Cage of Zeus è un altro esempio di come i corpi postumani costituiscano un territorio ideale per rappresentare la complessità del genere e della sessualità, diversa per ciascun essere vivente e inevitabilmente mortificata, in questo senso, dalle norme sociali di cui parlava Judith Butler.
Altri esempi vengono citati da Kotani Mari nel suo saggio Alien Spaces and Alien Bodies in Japanese Women’s Science Fiction (2007), secondo la quale i temi della trasformazione del corpo e delle forme anticonvenzionali di maternità sono una caratteristica distintiva della fantascienza femminile. Alcune di loro sono Ono Fuyumi (in particolare Tokei Ibun 1994, conosciuto in inglese come Strange Tales of Tokyo) e Shono Yoriko (con Haha no Hattatsu, in inglese The development of the mother, 1996), romanzi che hanno rappresentato, nei loro lavori, figure materne ibride o con qualche tipo di mostruosità.
Secondo Kotani, mentre nella fantascienza scritta da uomini la maternità richiama sentimenti positivi e la nostalgia di casa, quella femminile ritrae i suoi aspetti controversi, focalizzandosi sui conflitti tra madre e figlia (come già abbiamo visto in Hybrid Child).
La metamorfosi del corpo delle autrici SF giapponesi viene vista da Kotani con la doppia valenza di rappresentare, contemporaneamente, sia la capacità delle donne di mutare e adattare il proprio corpo per permetterne la sopravvivenza, sia (come già accadeva con il “creative masochism” degli autori del Dopoguerra) la percezione di essere “altro” rispetto a ciò che la società percepisce come il “soggetto”:
Kotani focuses particularly on social and bodily transformation […]. She sees these metamorphoses as an ambivalent hallmark of Japanese women’s science fiction, a signifier not only for women’s power and adapt-ability but also for their perceived monstrosity and isolation. (Bolton et al. xiii).
Infine, un’altra autrice che sarebbe ingiusto non citare in questo contesto, è la fumettista Hagio Moto, considerata una fondatrice del moderno shojo manga (manga per ragazze) e attiva nel campo del fantastico. Le opere di Hagio, che ha debuttato nel 1969, sono spesso incentrate su storie d’amore omosessuali e giocano, come osserva Harada, con la metamorfosi dei corpi e la fluidità del genere. Un esempio è l’antologia manga A, A Prime (1981-1984), che racconta di una società futuristica in cui sono diffusi gli “unicorni”, ovvero una specie di subumani creati per i viaggi spaziali, estremamente intelligenti e sensibili, in cui sono fortemente presenti i temi dell’intersessualità e dell’omosessualità. Un altro esempio è They Were Eleven! (1975), in cui dieci giovani cadetti spaziali vengono spediti su una navicella per il loro test finale (scoprendo poi di essere in realtà in undici). Nella storia sono presenti personaggi con sessualità doppie, ermafroditi, amori omossessuali e cambi di sesso, in una narrazione che pone l’accento sulla complessità del genere e reiventa, anche in questo caso, corpi e paradigmi sessuali.
Conclusioni
Attraverso la figura del cyborg e dei corpi postumani, Ohara Mariko mette in discussione i costumi sociali, la società patriarcale e la visione basata sul binarismo sessuale.
Riferendosi a un’entità formata dall’unione di elementi eterogenei, organici e meccanici, il cyborg è una figura che rifiuta di essere ascritta nel binomio umano-macchina, permettendo anche di mettere in discussione altri dualismi della contemporaneità, che giustificano la sopraffazione della natura, delle donne e delle minoranze.
Le figure femminili di Hybrid Child (Jonah, la madre e le entità derivanti dalle loro repliche), nei comportamenti anti convenzionali come nell’infinita duplicazione di sé stesse, creano nuove e molteplici forme di femminilità (in cui spesso non mancano contrasti e squilibri), in una critica implicita alla visione convenzionale che la società attribuisce alle donne. In Mental Female, la frammentazione dell’identità della protagonista in tre entità virtuali si oppone all’idea di donna come “corpo”, che è un veicolo (poiché basato su differenze biologiche) di significati e gerarchie di genere. In Ragazza il corpo ibrido del/la protagonista e la sua sessualità fluida pone l’accento sul binarismo sessuale come costrutto sociale.
Il desiderio di svincolare la femminilità da un concetto rigido di corporeità emerge anche nelle opere di Ueda Sayuri, con i personaggi ermafroditi del pianeta Jupiter-1 di The Cage of Zeus, che inducono a una riflessione su come sarebbe una società in cui l’anatomia ha permesso una concezione del genere in cui non esistono le differenze tra uomo e donna. Allo stesso modo, la rappresentazione di forme di maternità anticonvenzionali in corpi postumani raccontate da altre autrici di SF problematizzano la questione del corpo femminile, costituendo una sfida alle convenzioni sociali, mostrando nuove forme di femminilità che sfuggono alle norme e creando nuovi modelli e possibilità nell’universo delle relazioni sessuali e umane.
Evitando di proporre soluzioni, ma mostrando, invece, la complessità della questione degli squilibri tra i generi, queste opere sembrano porre un interrogativo: come fare, in futuro, a evitare le ineguaglianze basate sul genere/sesso?
Una domanda a cui, speriamo, l’umanità trovi una risposta prima di arrivare su altri pianeti.
Ringrazio Salvatore Proietti per l’aiuto che mi ha fornito per la scrittura di questo articolo.
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[1] Le opere trattate in questo articolo sono state lette in inglese e/o italiano, lasciando le citazioni nelle rispettive versioni.