Poche ore da quando ho finito di vedere Dispatches From Elsewhere e già mi sento orfana. Questa serie mi ha colpito molto, per più di un motivo: se ci trovassimo davanti a un boccale di birra in un pub, vi farei una testa così parlandovi dei personaggi, degli intrecci, delle stranezze di questa storia (storie?). In questo articolo mi limiterò a scrivere qualcuna delle idee che mi sono venute in mente una volta terminata la visione. Vi avviso che ci saranno parecchi spoiler, quindi la lettura è consigliata a chi ha già visto la serie. Se invece gli spoiler non vi spaventano, accomodatevi!
Jason Segel, il creatore della serie, ha preso l’idea alla base di Dispatches From Elsewhere da un fatto realmente accaduto: si tratta di un gioco collettivo chiamato Jejune Institute, organizzato nel 2008 dall’artista Jeff Hull. Il gioco ebbe più di diecimila partecipanti, che vennero coinvolti in una sorta di caccia al tesoro fatta di volantini disseminati per la città e di indovinelli “urbani”. L’intera operazione era in realtà un grande esperimento psicologico collettivo, che nel 2013 venne raccontato in un documentario, The Institute. Dispatches From Elsewhere è basato su questo documentario.
Protagonisti della serie sono quattro personaggi: Peter, un impiegato frustrato e apatico, Simone, una ragazza transessuale estroversa ma insicura, Janice, un’anziana mansueta con una situazione familiare difficile, e Fredwynn, un milionario dalla mente geniale ma incapace di socializzare. Le vite di questi personaggi si intercetteranno tra loro nel momento in cui ognuno, per conto proprio, telefona a un numero trovato su dei volantini disseminati per la città. Questa telefonata gli fa scoprire l’esistenza del Jejune Institute, un istituto che promette loro un’esistenza felice e ricca di stimoli, riservata alle “persone speciali”. Da qui in poi, i protagonisti inizieranno a seguire una pista di indizi che li porterà a risolvere indovinelli, infiltrarsi in posti sconosciuti e addentrarsi nel mistero della scomparsa di Clara, una ragazzina che vent’anni prima è stata un’artista di impressionante talento.
La serie si presenta così, come un susseguirsi di eventi affascinanti ma anche molto strani e spesso criptici, in cui gli stessi protagonisti non fanno altro che chiedersi se quello che stanno vivendo sia reale, uno scherzo, un esperimento governativo o chissà cos’altro.
È evidente, da subito, l’intento di suggerire che la realtà che stiamo vedendo è molto somigliante alla nostra, ma non è proprio la nostra: i primi piani di Octavio che racconta la storia e ci invita a “sentirci” nei panni dei vari personaggi; i messaggi sui bigliettini nel cassetto della Jejeune Institute che sembrano scriversi da soli sul momento; gli strani flash in cui Peter guarda la propria vita dentro a una serie di schermi televisivi; Simone che parla con le persone ritratte nei quadri della galleria d’arte in cui lavora.
Sciogliendo un enigma dopo l’altro, sulla pista architettata dalla Jejune Institute, i protagonisti si fanno strada verso il finale del gioco, che in realtà non è altro che l’innesco di un altro mistero, e di un altro ancora, fino allo svelamento metanarrativo che segna il vero finale della serie, in una struttura che ricorda un po’ quella di Mulholland Drive.
Alla fine scopriamo che le vicende che si snodano per 9 episodi sono in realtà parte di una storia scritta da Jason Segel (che compare nei panni di sé stesso nel decimo episodio, anche se le vicende di cui è protagonista sono un’ulteriore finzione). Oltre alle vicende dei quattro protagonisti, che si intrecciano con la “storia dentro la storia” di Clara, scopriamo anche la vicenda del bambino che sogna di fare l’attore (un altro alter ego, come scopriamo, di Jason Segel) e l’ulteriore storia, anch’essa di finzione, in cui Jason Segel interpreta sé stesso prima di arrivare a scrivere la storia di Dispatches from Elsewhere.
Durante questo percorso in cui si intrecciano e si sovrappongono linee narrative e piani ontologici, scopriamo tante cose: che esiste qualcosa al di là della realtà, che le cose non sono mai quelle che sembrano, che al mondo c’è qualcosa di misterioso che non capiamo, ma di cui, se siamo abbastanza fortunati e intraprendenti, possiamo cogliere degli echi. E anche il fatto che le connessioni tra le persone possono davvero rivoluzionare ogni cosa, e, se non arrivano a salvare l’umanità, di certo cambiano i singoli. Le connessioni possono far crescere e superare i propri limiti, attraverso il confronto con realtà diverse, i gesti di gentilezza, la premura, l’interesse reciproco.
Da questo punto di vista, trovo che una delle scene più belle di Dispatches From Elsewhere sia quella in cui Janice, all’ospedale con il marito in fin di vita, viene raggiunta da Fredwynn, che resta con lei durante l’agonia del consorte fino alla sua morte. Fredwynn per Janet è una persona conosciuta poche settimane prima in un gioco collettivo, che probabilmente non potrebbe neppure definire un amico, eppure è lui a raggiungerla in ospedale nel momento in cui lei si trova a essere da sola contro il mondo (perfino il figlio non si cura di raggiungerla in ospedale in un momento simile, lasciandola da sola ad affrontare la morte del marito).
A mio parere questa è una rappresentazione molto bella dell’importanza di instaurare connessioni con le persone, del fatto che potrebbero essere degli “estranei” a rimanerti vicino in momenti cruciali della vita, e non per forza i “legami di sangue”. Un concetto filantropico che mi è sempre sembrato semplice ma potente: Donna Haraway, in Chthlucene, lo esprime benissimo:
“Il mio intento è far sì che il «kin», la parentela, significhi qualcosa di diverso, qualcosa di più che entità legate dalla stirpe o dalla genealogia. Per un po’ questo pacato intento di de-familiarizzazione potrà sembrare solo un errore, ma un giorno (se la fortuna ci assiste) sembrerà che le cose siano sempre state così. […] All’università rimasi colpita dal gioco di parole tra kin e kind formulato da Shakespeare nell’Amleto: le persone più kind, ovvero le persone più premurose, non erano necessariamente i membri della famiglia. Generare parentele – making kin – ed esercitare la premura verso l’altro – making kind – (intesi come categoria, cura, parentele senza legami di sangue, parentele altre e molte altre ripercussioni) sono processi che ampliano l’immaginazione e possono cambiare la storia.” (Donna Haraway, Chthulucene).
Le interpretazioni e le spiegazioni che si possono dare a questa serie sono parecchie. Una chiave di lettura potrebbe essere quella della crescita e del cambiamento, visto che i personaggi all’inizio hanno tutti un qualche tipo di blocco o di difetto caratteriale che impedisce loro di essere felici, per poi intraprendere un percorso che li farà evolvere.
Un’altra chiave potrebbe essere quella della ricerca del sé, del tentativo disperato (forse indotto anche dalla società in cui viviamo) di essere speciali e rivestire un ruolo da protagonisti nella vita, per poi capire, gradualmente, che ciascuno è speciale a suo modo.
A mio parere (ma sono le mie solite elucubrazioni mentali), l’intera serie potrebbe anche essere vista come una rappresenazione del complesso e controverso processo creativo con cui gli autori inventano delle storie.
Nel gioco di metanarrazione di Dispatches from Elsewhere vediamo sovrapporsi più storie, concepite dalla stessa persona mentre attraversa fasi diverse della sua vita. Personaggi, situazioni ed elementi si ripetono, si mescolano, compaiono ora in una forma ora in un’altra, la stessa solitudine e la frustrazione di un personaggio vengono trasfigurate e trasferite nella storia di un personaggio diverso.
In tutte le storie, però, ritroviamo degli elementi comuni, sia grandi che piccoli. Nei personaggi, ad esempio: il rapporto di amore/conflitto che Peter/Jason ha con Simone resta quasi lo stesso sia nella parte della finzione che in quella della “realtà” (che poi è finzione anch’essa). Oppure in dettagli più piccoli, come loghi o elementi marginali: un esempio è il latte al ciccolato, una cosa che ricorre in tutte le vicende, consumato dalle spie di Jejeune, da Fredwynn e dal bambino-attore.
A rivelarsi, alla fine, è la rappresentazione di quel “compost immaginifico” che un autore usa per concimare nuove storie, costituito da elementi reali, pseudo-reali, immaginari, presi in prestito e lasciati a macerare nella mente, dal quale la fantasia attinge quando sta creando una storia.
Quello stesso meccanismo di trasfigurazione, riciclaggio di elementi narrativi e riscrittura può anche essere “spinto” fino al punto in cui l’autore arriva alla versione migliore della sua storia. È significativa, da questo punto di vista, la scena dell’ultimo episodio in cui Jason si arrabbia perché Simone gli fa notare di aver creato un suo alter-ego letterario “poco sincero”: la storia è buona, è scritta bene, ma qualcosa può ancora essere migliorato, e quel qualcosa ha a che fare con un aspetto critico dell’interiorità di Jason. L’unico modo che lui ha per migliorare la propria arte è affrontare quel limite interiore, il vittimismo e il nichilismo che lo caratterizzano, che impediscono alla sua storia/persona di evolvere.
E alla fine Jason ci riesce, creando la versione di Dispatches from Elsewhere che noi spettatori abbiamo appena visto: pur con tutti i suoi difetti (che ci sono sempre, in ogni storia), questo è il racconto che ha preso vita dopo che lui è riuscito ad affrontare i propri demoni e a sconfiggerli.
Come dicevo, le interpretazioni possibili per questa serie sono tante. Per questo motivo (e qui arrivo alla parte di questa serie che mi è piaciuta di meno) ho trovato fastidiosa l’ultimissima scena, ovvero quella in cui si vuole spiegare il senso di tutto, con Octavio che fa degli esempi e le clip in stile “real-life” dal gusto decisamente troppo retrò (lanciano un bel messaggio, per carità, ma ne avrei fatto volentieri a meno).
Ma tant’è: Dispatches from Elsewhere rimane una visione godibilissima, straniante e coinvolgente, capace di offrire molti spunti di riflessione sulla realtà, sulla società in cui viviamo, sulla differenza tra vivere e sopravvivere e, perché no, anche sui processi interiori che ci portano a scrivere le nostre storie.
Da vedere. Con una certa dose di nonchalance divina.